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Capitone o Anguilla marinata. La storia magica di questo pesce.

foto16532Ben ritrovati da “Sapere e Sapori – Blog”. Il Natale è ormai alle porte e l’aria fredda e pungente del mattino ci immedesima nell’atmosfera natalizia che torna puntuale ogni anno. Il Natale, si sa, è un insieme di tradizioni, di ricorrenze, di gioie condivise, di magie che ci infondono positività e benessere.

Proprio per quanto riguarda le tradizioni, noi di “Sapere e Sapori” abbiamo pensato di approfondire quella del “Capitone” o, meglio dire, dell’Anguilla marinata.

L’Anguilla marinata è un piatto tipico della tradizione napoletana. In passato, si pensava che questo piatto fosse propiziatorio per il nuovo anno, in quanto fosse in grado di allontanare il male. Questa beffarda credenza è dovuta al misterioso, a tratti mistico, ciclo vitale dell’Anguilla.

La scoperta

Il ciclo biologico dell’anguilla vede la sua genesi nel Mar dei Sargassi, a qualche centinaio di km di fronte alla Florida, sopra Cuba, dove, sicuramente, le condizioni di sviluppo delle uova sono anguillaottimali come lo erano milioni di anni fa, quando il continente americano era molto più vicino all’Europa e all’Africa (vedi deriva dei continenti).

Dobbiamo le prime osservazioni di larve di anguilla nel Mar dei Sargassi all’oceanografo Johannes Schmidt che, nel 1904, stava conducendo uno studio sui merluzzi dell’Atlantico settentrionale. Stupito dopo aver pescato delle piccole larve di anguilla, ingaggiò centinaia di pescatori che con le loro catture permisero di individuare la zona di deposizione delle uova.

In pochissimo tempo, individuò la zona strategica delle deposizioni, notando che le larve più piccole in assoluto si trovavano appunto in corrispondenza del Mar dei Sargassi.

Il lungo viaggio

Quando i piccoli di anguilla raggiungono la lunghezza di 5-7 mm, iniziano il loro grande viaggio verso l’Europa che può durare anche 2-3 anni. In questo tempo si accrescono e modificano la loro morfofisiologia.

Quando  tutte raggiungono la zona marittima di fronte al Portogallo, si divino in due grandiviaggio delle anguille filoni. Alcune arrivano in settembre presso le coste della Francia occidentale, dell’Irlanda e delle Orcadi. Da ottobre a gennaio nella Manica, in febbraio in Belgio e Danimarca, in maggio nel Mar Baltico. Le altre, invece, dirette verso il Mediterraneo, compaiono in ottobre a Livorno e in gennaio presso Tunisia ed Egitto. Di giorno sono ferme sul fondo e di notte si muovono lungo la costa.

Ormai già lunghe 70-80 cm, iniziano a risalire le acque salmastre degli estuari e il corso dei fiumi muovendosi lungo le rive, dove la corrente è meno forte. Durante la risalita dei fiumi, assumono la pigmentazione caratteristica.

Le anguille rimarranno nelle acque interne di fiumi e laghi per circa 3-4 anni, dove nel frattempo assumono le dimensioni da adulto. Alla fine di questo periodo, le anguille subiscono una metamorfosi sessuale: è qui che si rileva il vero sesso dell’animale considerato. Prima di allora non si sarebbe potuto vedere.

capitone_web1A questo punto, le anguille ormai di età compresa tra i 7 e i 9 anni per i maschi e 8-12 per le femmine, lasciano in autunno le acque interne per intraprendere la lunghissima e irreversibile migrazione di ritorno al Mar dei Sargassi. E’ in questo stadio, al momento della ripartenza, che le anguille vengono chiamate anguille argentine, che non ha niente a che vedere con la nazione sud-americana, bensì è dovuta alla loro colorazione.

La sorte delle anguille dopo la riproduzione (che avviene appunto nel Mar dei Sargassi) è ancora un mistero, ma poiché non è mai stato osservato un ritorno delle anguille adulte dal Mar dei Sargassi, si suppone che esse muoiono dopo l’emissione delle uova o dello sperma (a seconda del loro sesso). E’ stato constatato, su anguille allevate, che se viene loro impedito di raggiungere il mare, le femmine possono vivere anche più di 30 anni, i maschi più di 15.

Status della specie

La specie è gravemente minacciata a causa della pesca commerciale molto accentuata a partire dagli anni ’90. Il degrado ambientale, a cui l’anguilla è meno resistente rispetto ad altri pesci, è anch’esso parte delle maggiori cause della contrazione numerica di questa specie. Per non parlare poi degli sbarramenti, sia in salita che in discesa dei fiumi, provocati dalle turbine delle centrali idroelettriche.

Come riconoscere la qualità della carne al supermercato.

IMG_0613-0.JPGBuongiorno da “Sapere e Sapori Blog”, oggi vogliamo parlare di come poter riconoscere, almeno all’apparenza, la qualità della carne.
Molti di noi credono ancora che la qualità della carne dipenda dal colore che appare ai nostri occhi dietro il bancone. Non è così.
Delle belle salsicce rosse e grandi, delle belle mele di colore intenso e geometricamente perfette, delle fragole grandi quanto una pallina da ping-pong. Tutti questi esempi non sono altro che il frutto di un’intensa mancanza di diversità biologica in allevamento (intensivo) e forse addirittura di organismi nati da semi geneticamente modificati (i famosissimi OGM).

I problema degli OGM è un discorso assai ampio che, per ora, non vogliamo affrontare. Quello che interessa in questo articolo è esplicare il perché non dobbiamo assolutamente fidarci del colore rosso intenso della carne, sia essa di salsiccia, di gamberetto, di filetto, ecc.

In chimica esistono dei composti che si chiamano “Nitriti” che sono presenti anche in natura. I Nitriti sono composti in cui è presente l’Azoto, elemento principale dell’Ammoniaca, da cui, appunto, i Nitriti derivano.

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Esiste un particolare Nitrito che si chiama Nitrito di Sodio. Questo particolare composto preparato in laboratorio è usato nella preparazione della salsiccia (e anche di altre carni) perché ha la capacità di uccidere i batteri che vi potrebbero nascere nel periodo che va dalla produzione della salsiccia stessa al momento in cui il prodotto viene consumato. In altre parole diminuiscono fortemente la possibilità di trovare carne avariata al momento dell’acquisto.

Fin qui sembrerebbe che sia tutto apposto, quasi grandiosa come scoperta, ma che succede quando il Nitrito di Sodio entra in contatto con la mioglobina (proteina che trasporta l’ossigeno dal sangue ai tessuti muscolari) della carne dell’animale?

All’occhio regala un bel colore rosso intenso, ma bisogna sapere che a causa della tossicità del nitrito (la dose letale per l’uomo è circa 22 mg/Kg di peso corporeo) la concentrazione massima consentita per legge nelle carni è di 200 ppm.

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Infatti, a certe condizioni, ovvero durante la cottura, i nitriti della carne reagiscono con prodotti della degradazione degli amminoacidi (strutture elementari delle proteine della carne) formando le Nitrosammine, che sono notoriamente cancerogene.

Le quantità sono ovviamente bassissime, ma diventano molto pericolose e in certi casi letali (addirittura possono essere causa di tumore) specialmente a quelle persone che mangiano molta carne o a cui sono comunque poco tollerabili per cause congenite.

Questo non ci deve impedire di consumare qualsiasi tipo di carne, ma di consumare carne del supermercato o carne di derivazione di grossi allevamenti intensivi.
Prediligere carni con colore molto meno acceso o addirittura tendenzialmente grigie nel caso delle salsicce (quasi brutte da vedere, direi), può essere un primo passo per cambiare la direzione della nostra salute e del nostro benessere.

Olio extravergine di oliva: proprietà benefiche.

olio.panetoscanoBuona Domenica a tutti. Questa settimana parliamo di uno dei prodotti per eccellenza della dieta sana e naturale, ovvero dell’olio extravergine di oliva.

L’olio extravergine d’oliva è il fiore all’occhiello della dieta mediterranea. Nuove evidenze scientifiche certificano le tante proprietà benefiche di questo prezioso alimento, che vanno ben oltre la nota protezione di cuore e arterie.

Si tratta di una ricerca che in Spagna ha coinvolto oltre 40.000 soggetti tra i 29 e i 69 anni, arruolati all’interno di un più ampio progetto europeo sulla valutazione del nesso tra comportamenti alimentari, malattie e mortalità. Nell’arco di 13 anni di osservazione, in chi assumeva regolarmente un paio di cucchiai di olio di oliva al giorno si è registrata una diminuzione del 44% dei decessi per malattie cardiache e del 26% per altre cause.

Come è noto, l’olio d’oliva più pregiato è l’extravergine: quello di prima spremitura, a bassa acidità, ottenuto con soli metodi meccanici (senza manipolazioni chimiche) e “a freddo” (a temperature inferiori a 27 C°, che ne consentono il mantenimento delle caratteristiche organolettiche e delle qualità nutrizionali).olio-di-oliva-extravergine-bio

Ciò che rende l’olio extravergine d’oliva un alleato della salute cardiovascolare è il significativo contenuto di benefici grassi monoinsaturi, tra cui l’acido oleico, che favoriscono il controllo del colesterolo “cattivo” (LDL) e l’ottimizzazione del colesterolo “buono” (HDL).

Ma l’olio extravergine d’oliva esercita anche un’importante azione antinvecchiamento, non solo della pelle, ma di tutto l’organismo in generale. Si deve principalmente alla sua ricchezza in polifenoli e vitamina E, che, insieme ai carotenoidi (soprattutto betacarotene), contrastano radicali liberi, stress ossidativo e infiammazione.

E le proprietà dell’olio extravergine d’oliva non finiscono certo qui. Altamente digeribile, questo vero e proprio cibo-medicina allontana il rischio di alcuni tipi di cancro, contribuisce a regolare la funzionalità gastrica, promuove il benessere del fegato, aumenta la secrezione di bile, è utile per regolarizzare la pressione sanguigna e consumato a digiuno aiuta anche a combattere la stitichezza.

Come consumare l’olio extravergine d’oliva?

Quest’olio esprime il meglio delle sue qualità se aggiunto a crudo. Ma è preferibile agli altri condimenti grassi anche per cuocere e friggere: l’extravergine d’oliva ha infatti un alto “punto di fumo”, ossia quella temperatura a cui un grasso inizia a decomporsi, sprigionando sostanze nocive.

Al di là di preferenze legate al gusto personale, per scegliere l’olio extravergine d’oliva migliore ci sono quattro aspetti da tenere d’occhio.

L’etichetta: innanzitutto, per poter essere chiamato olio extravergine di olio01_d0oliva, la bottiglia deve riportare la dicitura “olio di oliva di categoria superiore ottenuto direttamente dalle olive e unicamente mediante procedimenti meccanici”. A tutela del consumatore la normativa impone di indicare la provenienza delle olive e la sede del frantoio. L’olio extravergine italiano è, se non il migliore in assoluto, sicuramente tra i più controllati ed apprezzabili. Per quel che riguarda l’extravergine, l’Italia è al primo posto per numero di DOP (denominazione di origine protetta) e IGP (indicazione geografica protetta).

La bottiglia: le più adatte sono quelle in vetro scuro o addirittura rivestite (in genere con pellicole d’alluminio), per difendere l’olio dal processo di ossidazione e deterioramento che i suoi composti subiscono quando sono esposti alla luce.

La “prova palato”: se l’olio ha un gusto un po’ piccante e lascia in bocca note amare (ma gradevoli) è un segno della sua ricchezza in polifenoli antiossidanti.

Il prezzo: un litro di olio extravergine di qualità non può costare meno di 6-7 euro. Non poco, certo. Ma per un alimento così prezioso ne vale la pena. Volete farvi un ulteriore regalo? Sceglietelo da agricoltura biologica. 

Olio nuovo 2014

Purtroppo però non si può dire lo stesso dell’olio dell’annata di produzione 2014. Vediamo in insieme il perché.

Va predetto che l’azione delle basse temperature ha un’influenza notevole sulla fisiologia della pianta. Per certe specie, l’esposizione alle basse temperature invernali è indispensabile per bloccare la dormienza di gemme e di semi. Si parla quindi di specie che, in questi casi, (come nel caso dell’estate del 2014 dove le temperature sono state notevolmente basse rispetto alla media, specie in zone collinari) assumono durante questo periodo lo stato di dormienza.

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Altre specie, invece, come l’olivo, sono quiescenti: durante l’inverno non sono capaci di entrare in riposo vegetativo completo (la dormienza rappresenta perciò, rispetto alla quiescenza, un più efficace meccanismo di difesa dai geli e da varie malattie).

Tutto questo, ovviamente, va ad influire anche sulla produzione di gemme, frutti e quindi semi da parte della pianta stessa. Ugualmente è avvenuto per l’olivo. Le basse temperature di questa terribile estate hanno portato ad una bassissima produzione di olive e quindi di olio da parte degli agricoltori, i quali, per non perdere l’investimento fatto ed avere un ricavo comunque considerevole, hanno abusato di fitofarmaci e prodotti chimici sintetici per aumentare la produzione di olive da parte delle piante.

Ciò porta ad un’innaturale sviluppo fisiologico dei frutti e quindi ad una insana struttura chimico-fisica degli stessi.

La Lenticchia di Castelluccio di Norcia, IGP

Buongiorno e buon Sabato a tutti. Questa settimana per Sapere & Sapori voglio presentarvi un prodotto molto conosciuto, anche a livello internazionale, ma svelandovi qualche piccolo segreto e qualche retroscena.31644

Chiamata dagli abitanti di Castelluccio “Lénta”, è il prodotto rappresentativo di questo piccolo paesino. L’uso di questo legume è antichissimo, come lo dimostra il ritrovamento di semi in tombe neolitiche datate 3000 A.C. E’ coltivata sul grande altipiano, all’interno del Parco Nazionale dei Monti Sibillini, ad un’altezza di circa 1500 mt s.l.m. La quantità di lenticchia prodotta annualmente è ovviamente limitata. Ciò la rende un prodotto di nicchia dal grande valore commerciale nonché nutrizionale.
Grazie alle condizioni climatiche piuttosto rigide in cui nasce, la lenticchia di Castelluccio è l’unico legume che non ha bisogno di essere trattato per la conservazione perché non è attaccata dal tonchio, insetto le cui larve si nutrono dei legumi.

Lenticchia-800La lenticchia di Castelluccio possiede delle notevoli qualità nutritive: tutte le sue proteine, vitamine, fibre e sali minerali la rendono ottima per chi necessita di una dieta ricca di ferro, potassio e fosforo, povera di grassi e molto nutritiva. Un’altra caratteristica importante della lenticchia di Castelluccio è la buccia sottile e tenera che consente direttamente la cottura senza ammollo, riducendo notevolmente i tempi di preparazione.

La lenticchia è una pianta annuale, che fiorisce tra maggio e agosto, appartenente alla famiglia delle leguminose. L’inconfondibile sapore, le dimensioni molto piccole, la resistenza ai parassiti e la coltivazione esclusivamente biologica, oggi ne fanno un prodotto ricercatissimo. 

Come riconoscere l’autenticità
Il prodotto autentico è denominato Lenticchia IGP (Identificazione Geografica Protetta) di Castelluccio di Norcia, si distingue dalle imitazioni per le dimensioni, è molto piccola, e per la particolare resistenza alla contaminazione da parassiti, caratteristica innata che le è conferita dall’ambiente naturale e dal clima rigido dell’altopiano di Castelluccio di Norcia.

Viene seminata, non appena il manto nevoso è completamente UFO A CASTELLUCCIO DI NORCIA 2009disciolto. Verso la fine di Luglio, massimo primi di Agosto, viene raccolta. Una volta, quando ancora non esistevano le macchine agricole, questa operazione veniva svolta esclusivamente a mano, con una tecnica chiamata in dialetto “carpitura”. Ad aiutare gli agricoltori, affluivano braccianti da molti paesi limitrofi; Gualdo, Pescara Del Tronto, San Pellegrino, per la maggior parte donne, “le carpirine”. Era un lavoro faticoso e lungo, che durava settimane e terminava con grandi feste folkloristiche
Oggi si ricorre, quasi sempre, alle falciatrici meccaniche, ma i ritmi e i “rituali”, obbligatori, fanno della raccolta un momento di massimo impegno per gli agricoltori del luogo.

Fasi di lavorazione (da lenticchiaigpcastelluccio.it)
L’aratura e la semina avvengono in primavera, dopo lo scioglimento
del manto nevoso che ha ricoperto per tutto l’inverno i campi. Da quel momento fino alla raccolta la lenticchia ha bisogno solo di pioggia. E’ tradizione di Castelluccio recarsi ogni anno, a fine giugno, in pellegrinaggio a Norcia nella chiesa di Santa Scolastica ad invocare la Santa affinché  faccia  piovere sulla lenta. 

IMG_2989Le tecniche di produzione della lenticchia sono le stesse che venivano adottate sin dai tempi antichi. Io personalmente ogni anno alla prima luna nuova di primavera semino a mano alcuni campi usando lo stesso lungo sacco di tela grezza e le stesse biffe ( le biffe sono dei bastoni che si mettono a distanza regolare le une dalle altre per segnalare la parte del campo seminato) che usava mio nonno. Dopo un mese e mezzo dalla semina si ha la fioritura
dei 
campi della lenticchia, un esplosione di colori unica nel suo genere. Prima i campi si colorano di giallo, dopo qualche giorno mutano nel colore rosso dei papaveri e subito dopo al blu intenso dei ciclamini.

A fine luglio fino alla prima metà di agosto si procede alla carpitura.
Dato che la pianta della lenticchia e troppo bassa (solo di rado supera i 30 centimetri) e molti campi sono sassosi, la carpitura richiede particolare attenzione e molto tempo. Nel passato questa operazione veniva fatta totalmente a mano, poi si è iniziato con la falce, poi si e passati all’uso delle falciatrici qualora il campo sia piano  e pulito dai sassi e la pianta della lenticchia abbastanza alta e non troppo secca. Fino alla  metà degli anni sessanta la carpitura veniva fatta dalle carpirine (paragonabili alle mondine del riso). Ogni anno all’inizio della carpitura, le carpirine salivano a piedi a Castelluccio dai paesi dell’Ascolano insieme ai mietitori.  Ogni gruppo era guidato da un suonatore d’organetto che suonando il suo strumento accompagnava il gruppo fin sulla  scalinata della piazzetta di Castelluccio ai piedi della Chiesa. In questa piazzetta la mattina si contrattava la carpitura dei campi. La contrattazione rifugio-perugia-castelluccio-di-norcia-parco-nazionale-monti-sibillini-visso-fioritura-fiorita-muli-asinelli-349rr236avveniva a opere. L’opera era la quantità di terreno che una carpirina doveva carpire in una giornata. L’opera di carpitura corrisponde a circa 600 metri quadrati. Durante il lavoro le carpirine usavano cantare stornelli  di rimando tra loro. Spesso nei loro canti si poteva percepire un velo di tristezza a causa del duro lavoro e per la lontananza dalla famiglie.

Alla fine della carpitura di ogni campo il capo gruppo metteva mano al suo organetto e lo suonava a tutto fiato in modo che le sue note arrivassero molto lontano. Il suono degli organetti era diverso uno dall’altro. Chi ascoltava le note sapeva che il suonatore era Gino o Fortunato o Flaviuccio, Capone o Scaccavella. Queste note avvisavano che il gruppo  aveva finito di carpire un campo ed era libero da impegni, quindi disponibile ad iniziare un altro lavoro. Le carpirine  dormivano nei fienili, il padrone del campo che le assumeva  portava loro il mangiare. Il lavoro di carpitura iniziava al sorgere del sole e terminava quando le campane della chiesa suonavano, dopo il tramonto del sole, l’Ave Maria.

Man mano che la lenticchia viene carpita o tagliata, si raccoglie in mucchietti sul campo. I mucchietti sono piccoli e  disposti in lunghe file parallele, distanti tra loro quel tanto che basta per farci passare un trattore con il suo carrello.
Fatti i mucchietti sul campo si lasciano per alcuni giorni ad 
essiccare.  Per la lenticchia questo è il momento più delicato. Una pioggia abbondante potrebbe compromettere il raccolto.

Quando la lenticchia e sufficientemente secca si carica con il castelluccio-di-norciatrattore e si porta all’aia, una zona del Pian Grande vicino alla biforcazione per la strada che porta a Forca di Presta. Questa operazione si chiama “ricacciatura”.
All’aia vengono fatti dei grandi mucchi coperti con teli per proteggerli dalle piogge. Fino a quaranta anni fa, a posto dei teli, si usavano le coperte dei letti. Le aie viste da Castelluccio apparivano piene di colori.
Dopo alcuni giorni si procede alla “trita”. Si sparge un mucchio di paglia di lenticchia per la piazza dell’aia e con “ lu  mazzafrustu”, ( due robusti bastoni legati tra di loro con una corda) facendolo roteare sopra la testa si batte sulla paglia di lenticchia  finchè i semi  non escono dai loro  baccelli. Quanto la trita e particolarmente grande si utilizzano  cavalli e muli. Si legano in fila  gli uni  agli altri. Il cavallo più vecchio e lento si mette all’inizio quello più giovane e veloce si mette per ultimo. I Cavalli e i muli si fanno trottare in girotondo   sopra la paglia di lenticchia finché il seme non esce dai baccelli. Durante la trita si cantavano stornelli, il più ricorrente era il seguente:
“……All’aia all’aia che la trita è messa
Ognuno ci si porta la ragazza
Ognuno ci si porta la ragazza
Ad ogni mazzafrustata un bacio e una carezza……”
La fase successiva alla trita è la formazione del “cantile”.
Con delle forche larghe si solleva, sbattendola in continuazione, la paglia della lenticchia tritata e si mette da parte per essere pressata in balle e portata al fienile. Una volta raccolta tutta la paglia rimane sul terreno “ la cama”. ( la cama è l’insieme  della lenticchia e pula). Con delle scope di frasche di faggio la cama viene raccolta e se ne fa un mucchio. Il mucchio della cama si chiama “cantile”.
La fase successiva al cantile è la  “scamatura”.
Questa operazione ha bisogno del soffio del vento. Il soffio del vento  deve essere continuo ma non troppo forte. La scamatura si fa gettando la cama in aria controvento. Il vento con il suo soffio allontana la pula che è leggera e fa ricadere nel cantile il seme della lenticchia. Questa operazione abbisogna di una particolare abilità che si ottiene con anni ed anni di pratica. La scamatura è fatta  dalla persona più anziana ed esperta  del Clan.( Ho usato questo termine “Clan” perché  é usanza fare l’aia insieme agli altri parenti, anche di generazioni lontane. Questa riunione di famiglie fa si che  nell’ aia ci sia  abbondante presenza di uomini, sia per lavorare,  sia per  difendere l’aia dai pericoli, quali il fuoco.)  Finita la scamatura quello che resta nel cantile è la lenticchia, il premio di una lunga stagione di lavoro. A questo punto, per soddisfare la curiosità di tutti si può, con assoluta precisione, stabilire la resa in quintali del campo. Si infila il manico della pala nel cantile e si segna l’altezza, a questo punto lo scamatore con il palmo della mano e con le dita misura  l’altezza  del cantile: il primo palmo corrisponde al primo  quintale, successivamente ogni quattro dita sono un altro quintale. (Esempio: l’altezza del cantile  misurato con il manico della pala corrisponde a un palmo e  sedici dita; la resa del cantile è di cinque quintali di lenticchia.) Per segnare e ricordare quanti quintali ha reso un campo si usava prendere un bastoncino di salvastrello e con il coltello si facevano tante tacche quanti erano i quintali. ( quelli che si incidevano sul ramoscello di salvastrello erano i quarti che corrispondevano a Kg. 33)
Oggi la pratica della trita con i cavalli e mazzafrusto è caduta in disuso. Di rado è possibile ammirare qualche vecchio contadino intento a questa vecchia pratica di lavoro. Per  motivi di praticità e per la carenza di manodopera si preferisce la trebbiatura con le mietitrebbia o con la trebbia a cintone, entrambe disdegnate e odiate dai vecchi contadini.
La fase successiva si chiama “conciatura” ed è affidata 
esclusivamente alle donne.

La conciatura si fa in cantina ed ha lo scopo di togliere gli altri semi e l’impurità dalla lenticchia. Si passa la lenticchia  con la conciajiola  delle pajie per togliere la paglia rimasta dopo la scamatura. Successivamente si passa con il corvello per togliere i semi piccoli dei sonapiei ( sono i semi dei fiori gialli che si vedono nei campi di lenticchia durante la fioritura) durante questa fase viene tolta anche la rimanenza della pula e di tutti le altre impurità. Si passa quindi al corvello della veccia. Successivamente si passa su  lu “capistiju” utensile fatto con un unico tronco di faggio  per la capatura a mano.  L’ultima fase della lavorazione della lenticchia e quella del confezionamento per l’invio alla  vendita.
Questo racconto è dedicato alle Carpirine della lenta.

Ricette

Ricetta tipica

Ingredienti per 4 persone 

400 gr. di lenticchia di Castelluccio di Norcia
1 lt di acqua 
1 gambo di sedanoMinestra di lenticchie 006
1 spicchio di aglio
sale e pepe

Versare le lenticchie in un tegame possibilmente di coccio, aggiungere l’acqua, il sedano e l’aglio. Far cuocere per 40 minuti circa. A cottura quasi ultimata aggiungere sale e crostini di pane tostato e aromatizzati con un po’ d’aglio, e olio.

Lenticchie con salcicce 

Ingredienti per 4 persone

400 gr. di lenticchialenticchie_salsicce
4 salcicce
1 spicchio d’aglio, 
1 costa di sedano

Mettete in una pentola insieme alla lenticchia  uno spicchio d’aglio e la costa di sedano tagliata a cubetti. Aggiungete dell’ acqua fredda fino coprire il tutto abbondantemente,  Portare ad ebollizione a fiamma vivace, quindi abbassare la fiamma in modo che l’acqua bolla lentamente. Al momento che occorre altra acqua, aggiungere sempre acqua bollente altrimenti si ferma la cottura delle lenticchie.
Prendetele salcicce e bucateli con un ago da lana e appena l’acqua con la lenticchia bolle adagiateli lentamente tra le lenticchie (aggiungete la passata di pomodoro) e fateli bollire insieme a fuoco lento per circa quaranta minuti.
A cottura ultimata, se occorre, aggiungete del sale.
Adagiate la lenticchia con le salcicce su quattro piatti, con un bicchiere di vino rosso di Montefalco e una fetta di pane casareccio. 

Zuppa di lenticchie alla Castellucciana

Ingredienti per 4 persone
350 gr. di lenticchia
8 mezze fette di pane tostato
1 spicchio d’agliozuppa di lenticchie
1 costa di sedano
sale e olio extra vergine.

Mettere le lenticchie in una pentola , aggiunge acqua fredda quanto basta per coprirla bene, 1 spicchio d’aglio e la costa di sedano tagliata a cubetti. Portare ad ebollizione a fiamma vivace, quindi abbassare la fiamma in modo che l’acqua bolla lentamente. Al momento che occorre altra acqua, aggiungere sempre acqua bollente altrimenti si ferma la cottura delle lenticchie.
Dopo circa 30 minuti di bollitura aggiungere il sale e portare la lenticchia a fine cottura facendo rimanere un po’ d’acqua di cottura.
Mettere in una scodella due fette di pane tostato versare la lenticchia con il brodo di cottura, attendere una diecina di minuti, aggiungere un cucchiaio d’olio extra vergine e servire.

La leggenda degli Strascinati: da Monteleone di Spoleto a Cascia, l’antica ricetta

Buon finesettimana a tutti, eccoci di nuovo alla Rubrica “Sapere & Sapori”. Prima vi volevo ringraziare per il vostro follow me di quest’ultima settimana, sono davvero felice che vi sia piaciuto l’articolo che riguardava la ricetta dell’ Amatriciana.
Questa settimana ci spostiamo leggermente più a Nord, nel cuore verde d’Italia: la mia amatissima Umbria.valnerina-umbria-02b
 
Non so se conoscete la zona di Cascia – Norcia (Provincia di Perugia), le due tanto piccole quanto graziose cittadine medievali che dominano la Valnerina, la valle percorsa dal piccolo fiume Nera, affluente del Tevere.
 
Dovete sapere che Cascia e Norcia hanno una storia antichissima, sia dal punto di vista storico – artistico, sia, ovviamente, dal punto di vista culinario.
Quest’oggi voglio soffermarmi in particolar modo su un piatto poco conosciuto, tipico di Cascia e raccontarvi la sua storia: gli Strascinati di Cascia.
 
Attenzione, non confondiamoli con gli strascinati di altre regioni che sono tutt’altra cosa e nemmeno (nonostante l’apparenza) con la più nota “pasta alla carbonara”.
 
“Del come e del quando vennero per la prima volta serviti gli STRASCINATI, da una avvenente fantesca del Castello di Vetranola, in quel di Monteleone dell’Umbria a salvezza da morte degli uomini del Castello e di colui che amava”.
(da una cronaca umbra del XV Secolo)
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Correva l’anno 1494, quando i Capitani Paolo e Camillo Vitelli, alla testa di numerosi fanti e cavalieri, invasero la terra di Monteleone, onde dare aiuto al Re di Francia, Carlo VIII, intento allora alla conquista del regno di Napoli.
Un giorno i due fratelli si trovarono, stanchi ed affamati, alla porta del Castello di Vetranola ed ivi chiesero cibo e ristoro.
Ritenendo però infidi gli abitanti, stimarono miglior partito prendere prigionieri il castello e tutti gli uomini validi e quindi ingiunsero alle donne di imbandire la mensa e servirli.
L’odio ed il rancore per l’oltraggio patito indussero le donne del Castello a preparare per gli invasori un misero piatto di “penchi” assai male conditi, giustificandosi col dire che, per i tempi calamitosi, non avevano altro di meglio da offrire.
Tale incauto comportamento fece montare in furore i Vitelli i quali ordinarono che tutti i prigionieri, mani e piedi legati, venissero attaccati ai cavalli per essere TRASCINATI, fino a morte, intorno al Castello.
A nulla valsero le preghiere ed i pianti delle donne; solo ebbe effetto l’ardimentosa proposta di una bella fantesca, la quale si offrì di mutare i dispregiati ”penchi” in una sostanziosa vivanda mai prima gustata, a patto però, che non si procedesse nella minacciata rappresaglia.
Si era in carnevale e, se le carnascialesche imprese eran neglette, tanto imperava il pianto e la tristezza, pure fioriva la sagra dell’utile suino, che dette alla giovane il mezzo per vincere la disperata impresa.
3Con guanciale magro, salsicce fresche, uova e pecorino, abilmente manipolati e rimescolati, trasformò quei “penchi” in una prestigiosa
vivanda che i Vitelli e la loro scorta gustarono a pieno, tanto che placati e satolli ripresero la via di Napoli, senza fare danno ad alcuno.
Da allora nella terra di Monteleone tale pietanza viene chiamata “STRASCINATI” , felice improvvisazione di una giovane umbra innamorata.
Un ingrandimento di questa pergamena, è possibile trovarlo presso la Locanda Giustini, un ottimo Ristorante nel centro di Cascia che ancora oggi ripropone la ricetta col metodo tradizionale.
 
Come abbiamo visto la ricetta non è del tutto originaria di Cascia, bensì di Monteleone di Spoleto, un altro piccolo comune a 20 km dalla cittadina di S. Rita. Cascia, però, l’ha fatta sua fino a renderla un piatto tipico.
 
La ricetta
 
La ricetta originale prevede, come pasta, i penchi. I penchi sono un tipo di pasta lunga, molto simile alle pappardelle, ma leggermente più stretti. È una pasta rigorosamente fatta in casa.
In mancanza di quelli, si può usare benissimo anche una pasta corta, tipo le casarecce, o le stesse pappardelle.
 
Ricetta per 2 persone. Ingredienti:
 
180 g di pasta
100 g di pancetta487406_105484796278322_544654073_n
100 g di salciccia di maiale
2 uova
½ bicchiere di latte o panna da cucina
Olio
Sale
Pepe
Pecorino grattugiato
 
In una padella rosolare l’olio con la salsiccia sgranata e fatta a tocchetti e la pancetta a dadini, cuocere bene per una decina di minuti.
In una ciotola, sbattere le uova intere con il sale, il pepe, il pecorino e il latte.
Cuocere gli strascinati in abbondante acqua salata, scolarli e versarli nella padella con la salsiccia e la pancetta, mescolare e versare dentro il composto di uova. Nel mentre spegnere il gas e mescolare bene fino a che il composto si è rappreso e servire.
 
Un gustoso saluto
Francesco Giannetti

La vera storia dell’Amatriciana: da Amatrice a Roma passando per Rieti

Eccoci di nuovo qui, alla Rubrica di Sapere & Sapori. Questa settimana spaghetti-smart-amatricianavoglio parlarvi della vera storia di uno dei piatti italiani più famosi, cercando anche di sfatare qualche mito a riguardo: sto parlando dei “bucatini all’Amatriciana”.

Prima però di addentrarci nelle caratteristiche vere e proprie di questa ricetta, tanto semplice quanto dibattuta, è bene dare anche uno sguardo storico alla sua genesi.

Un po’ di storia
Prima degli anni ’60, il contesto urbanistico italiano era molto diverso da transumanzacome lo si trova oggi. Le campagne e le zone rurali erano vive e rigogliose. L’uomo viveva a contatto con la natura tutta la sua vita, da essa traeva i suoi frutti e l’economia agricola non era nient’altro che un’attività di sussistenza.

L’agricoltura comprendeva sia la pastorizia (quindi allevamento di bestiame, soprattutto pecore) sia di coltivazioni (a fine domestico).
Proprio a riguardo della pastorizia, non era raro che il pastore (di pecore) esercitasse la transumanza.

La transumanza è un tipo di pascolo ovino strettamente dipendente transumanzadall’andamento delle stagioni. L’inverno, a causa delle temperature molto basse e quindi di una praticamente assente nascita di erba, portava i pastori a spostarsi dalle zone montane/collinari alle zone più temperate, vicino alla costa.

Nel corso del loro viaggio, si cibavano di quello che trovavano. Cucinavano all’aperto e dormivano in rifugi occasionali.

Ovviamente, essendo poveri, il piatto più ricco che si potessero permettere era la polenta.
Questa veniva condita con ciò che capitava loro tra le mani. Non esisteva l’olio, si usava il grasso animale, ad esempio quello di una pecora morta polenta-con-guancialeper cause accidentali (non potevano uccidere il loro gregge, era la loro unica fonte di sussistenza), da cui poi traevano anche arrosticini, costarelle, ecc.
Spesso capitava, nel periodo compreso tra gennaio e marzo (periodo in cui si macellano i maiali) che venissero in possesso di qualche pezzo di carne di maiale. Sempre per motivi economici, l’unica parte del maiale che si potessero permettere era quella considerata meno pregiata, più povera, che durante la macellazione veniva scartata: la guancia. Da qui il nome “guanciale”.

Quindi, il vero piatto, antenato, dell’Amatriciana non era nient’altro che la polenta con il guanciale e unta col suo stesso grasso. Se ne avevano possibilità, lo condivano con del buon pecorino (guarda caso formaggio di pecora) stagionato.

Con l’arrivo degli anni ’60 (ma si hanno testimonianze già dalla fine del XVIII secolo) l’avvento dell’urbanizzazione, l’abbandono delle campagne e della pastorizia, il buon piatto presente nella tradizione contadina fin da tempi antichi, si è modificato. La polenta ha lasciato il posto alla pasta confezionata del supermercato, cambiando così anche il nome. Questo nuovo piatto, condito solo con guanciale e pecorino, viene tutt’oggi chiamato in dialetto reatino, “La gricia” (o griscia, forse derivato dal nome di una frazione del comune di Accumuli, vicino Amatrice: Grisciano). Purtroppo è poco conosciuta.

Di lì a poco, nel corso degli anni ’60, un cuoco (forse – le fonti sono poco amatricechiare) di Amatrice, per dare ancora un tocco di innovazione e modernità alla ricetta, aggiunse il pomodoro e scelse un particolare tipo di pasta, propria di quelle zone: i bucatini.

In realtà, però, la prima testimonianza scritta dell’uso della salsa di pomodoro per condire la pasta si trova nel manuale di cucina “L’Apicio Moderno”, scritto nel 1790 dal cuoco romano Francesco Leonardi.
Nell’Ottocento e sino a metà del Novecento, la popolarità della pietanza a Roma si accrebbe considerevolmente. Questo avvenne a causa degli stretti contatti, come detto sopra, tra Roma ed Amatrice proprio attraverso i pastori transumanti.

È proprio questa la causa principale di tutti quei miti e quelle “leggende metropolitane” cresciute attorno alla ricetta vera e propria Amatriciana. In realtà non si riesce a darle una nascita precisa, si sa però per certo che è, come la maggior parte delle pietanze conosciute oggi, di derivazione contadina.

Domande frequenti

La vera Amatriciana, è con o senza cipolla?
Rigorosamente legata alla tradizione, la mia risposta non può essere altro che negativa nei confronti della presenza della cipolla. Come abbiamo detto sopra, il pastore non solo non poteva permettersi di comprare più ingredienti possibili, ma per di più non aveva nemmeno la possibilità di coltivarla. La vera Amatriciana è rigorosamente senza cipolla.

Guanciale o pancetta?
A questa domanda potrei anche non rispondere, però è ovvio che nella ricetta originale è presente solo ed esclusivamente il guanciale.

Quale tipo di pasta è preferibile usare? Bucatini, spaghetti o rigatoni?
L’Amatriciana fu estremamente bene accolta a Roma e, anche se nata altrove, venne rapidamente considerata un classico della cucina romana. Se quindi ad Amatrice vi potranno offrire anche i rigatoni, a Roma faranno solo i bucatini, come è stata ribattezzata nella Urbe.
Sconsiglio comunque vivamente gli spaghetti. Il fatto che siano fini e lisci non permette loro di trattenere bene il sugo, che scivola via e rimane sul fondo del piatto.

Alcide, il pesce del Chianti

Bentornati alla Rubrica Sapere & Sapori. Questa settimana voglio parlarvi del miglior ristorante di pesce che abbia mai frequentato.
Non esagero! È veramente il migliore!spaghetti

Modestia a parte, di ristoranti ne ho frequentati tanti e mi piace mangiare sempre in nuovi posti. Quando mi trovo bene in tutto il contesto del locale, uso prendere il biglietto da visita, che metto poi nella mia collezione e con cui stilo una breve recensione.

Il Ristorante Alcide nasce nel 1849 a Poggibonsi (SI) e prende il nome
dello stesso proprietario. Tramandato di generazione in generazione, oggi a gestirlo sono due sorelle, le nipoti del vecchio Alcide ormai defunto.
Il Ristorante Alcide vanta prima di tutto l’altissima qualità del pesce dell’Argentario, nota località di mare al sud della Toscana.
Il pesce viene comprato ogni giorno direttamente da un pescatore di fiducia e viene portato la mattina prestissimo al Ristorante, dove poi viene preparato e cucinato.

Reputo personalmente Alcide il miglior ristorante di pesce non solo per la qualità dei suoi prodotti, che comunque non hanno niente da invidiare ad altri pescati in altre zone d’Italia.
Ma voglio esaltare la cura e il rispetto che vengono tramandati da più di un secolo e che la famiglia del buon vecchio Alcide ha mantenuto sani e saldi.
Mi spiego meglio descrivendovi alcune delle tante e meravigliosamente speciali ricette.

L’insalata di mare
In tutte le insalate di mare che ho mangiato, come voi mi potrete confermare dalle vostre esperienze, gli chef mettono anche le verdure. È molto comune infatti trovarsi davanti un’insalata di mare composta sia da 08gamberetti, totani, seppie, ecc. ma anche da pezzetti di sedano, carote, pomodori, cipolline (non sempre), e altri tipi di verdura.
In questo modo, purtroppo, non solo viene servito meno pesce nella stessa portata, ma viene “gonfiato” il piatto con qualcosa di poco valore come gli ortaggi e fatto pagare come pieno.
Alcide, invece, prepara l’insalata di mare innanzitutto senza verdura, ma soprattutto in modo semplice. Il gusto è puro, quello proprio del pesce. Si scioglie in bocca e non si sente assolutamente il sapore acre del limone con cui è stato marinato.

Il polpo al crostone
Questa particolare ricetta è stata leggermente modificata da qualche anno a questa parte. È un polpo succulento, steso su del pane croccante e07 bagnato da un sughetto a dir poco delizioso.

Dal gusto dolce con un ritorno al palato leggermente piccante, il polpo al crostone di Alcide è servito caldo, sia per antipasto sia, volendo, come secondo piatto.

Il risotto di mare

Anche qui vale la regola dell’insalata di mare. Siamo tutti capaci a nascondere la bassa qualità del pesce o di qualsiasi altro cibo, 010condendolo con più ingredienti possibili. Si rischia però di offuscare il sapore del pesce e riempire il palato con altri innumerevoli gusti.
Alcide fa il suo risotto rigorosamente in bianco, senza pomodoro. Sano e puro, avvolto da una delicata cremina bianca, è uno dei piatti più consumati proprio perché leggero e salutare.

I dolci
Anche i dolci hanno il loro “signor valore”. Sono preparati nello stesso 04ristorante e vengono serviti anche per feste di compleanno e cerimonie.

Altre ricette
Altre ricette a cui voglio prestare attenzione sono le lumache di mare, squisite (ve lo dice uno che aveva enormi pregiudizi prima di assaggiarle);
gli spiedini di pesce, semplici, con solo gamberoni, totani e pane;
le capesante al forno, uniche nel loro genere, assolutamente da provare;
ravioli di pesce, coperti da una leggera cremina di gambero che fa impazzire il palato.

Pagella
Rapporto qualità – prezzo: OTTIMA
Pulizia: Eccellente
Servizio: Eccellente
Voto complessivo: 9.5

Un gustoso saluto
Francesco Giannetti

Zafferano: verità tra leggenda e realtà.

20100514_cabiddu_zafferano_00_d0Buongiorno a tutti da “Sapere & Sapori”. Oggi voglio spostarmi nella verde Umbria e raccontarvi la vera storia dello Zafferano, l’unico e originale Zafferano di Cascia.

Nel 2012 ho lavorato presso il Museo Civico di questa piccola cittadina umbra e in ottobre feci una didattica rivolta ai bambini delle elementari sul tema dello Zafferano.
Per raccontar loro la storia di questo fantastico prodotto, creai una favola che ripropongo di seguito, in modo che fosse per loro molto comprensibile.

C’era una volta, tanto tempo fa, in un paese lontano da qui, un ragazzo bellissimo di nome Crocus. Un bel giorno Crocus andò in riva al fiume a prendere l’acqua per il suo villaggio e incontrò una dea di nome Smilace.
La dea era bellissima e Crocus se ne innamorò. Però Zeus, il padre di tutti gli dei, quando venne a sapere del loro amore si ingelosì e trasformò Crocus in un fiore magico.
Questo fiore poteva condire il cibo di tantissime persone tutte insieme, colorare l’acqua di una grande piscina, curare il mal di testa, aiutare le mamme a far nascere i bambini e poteva servire persino a colorare quadri e abiti. Era un fiore bello, nobile e molto ricercato. Venne così coltivato anche dagli Arabi, in Asia e persino dagli antichi Romani quando abitavano qui nelle nostre zone. Poi però un brutto giorno in Italia arrivarono i barbari e distrussero tutto, anche i campi di quel fiore bellissimo.
Per fortuna, però, gli Arabi non vennero conquistati così mantennero la coltivazione di quel fiore e lo chiamarono ZAAFRAN, che vuol dire “giallo”. Giallo era il colore che assumeva questo fiore nella tintura, nella spezia, ecc.
Gli arabi coltivarono quel fiore per molti secoli fino a quando lo portarono in Spagna durante il medioevo e la Spagna poi lo portò a L’Aquila e lì rimase per molti altri secoli.
Un bel giorno, una ragazza di nome Silvana che viveva a Civita ritrovò un libro antichissimo, scritto in latino.
Lei poverina non sapeva tradurlo e andò da due suoi cari amici, tra cui uno di loro era Fulvio Porena. Su quel libro antichissimo era scritta la storia di Crocus e di quel fiore bellissimo chiamato Zaafran. Insieme andarono fino a L’Aquila, nella piana di Novelli, da una famiglia di contadini che erano gli unici in Italia che per secoli e secoli lo avevano coltivato senza fargli perdere le tracce.
Quel giorno, Silvana ne portò un po’ nel suo paese e cominciò a coltivare il pregiatissimo Zaafran di Cascia, chiamato oggi anche “Zafferano di Cascia”.

Aldilà della semplicità del testo, rivolto ai bambini, la storia descritta non è altro che dapprima la leggenda della genesi dello Zafferano, poi la storia vera.

zafferano-raccoltaInfatti la riscoperta e la ricoltivazione dello Zafferano nella zona di Cascia, si devono a due personaggi principali, la Sig.ra Silvana Crespi, di Civita di Cascia (Pg), uno dei luoghi di maggior produzione, e a Fulvio Porena, studioso e ricercatore oggi direttore del CEDRAV (Centro per la Documentazione e la Ricerca Antropologica in Valnerina e nella dorsale appenninica umbra).
Esaminando antichi testi, sono venuti a conoscenza che nelle zone di Cascia e Norcia, senza contare i distretti di Spoleto e Foligno, fino ad epoca medievale, la coltivazione dello Zafferano era di fondamentale importanza.
Ripropongo di seguito alcuni video di particolare interesse.

Curiosità
-Il conosciutissimo Curry, non è altro che lo stesso Zafferano “inglesizzato”.
-I pistilli dello Zafferano sono rossi, ma schiacciandoli rilasciano un colore giallo tipico.
-Per fare un grammo di Zafferano servono ben 200 fiori.
-La semina dello Zafferano avviene tra maggio e giugno, a seconda del clima, e la raccolta a settembre. La raccolta avviene rigorosamente la mattina prima che il Sole sorga del tutto, per poi tostarlo ad una temperatura costante di 40 °C. Questo è più possibile con gli strumenti e i macchinari odierni, rimaneva assai difficile e di grande professionalità farlo in tempi più antichi.

– Solo la Sig.ra Silvana Crespi, intervistata nel video sopra proposto, crea il liquore digestivo in alta percentuale di Zafferano. Davvero eccezionale.
ALCUNE RICETTE

Risotto allo Zafferano

Burro 125 gr.
Una cipolla
Un pizzico di pistilli
Zafferano in polvere, 1 gr.
Riso arborio 350 gr.
Vino bianco 200 mL
Brodo 1 Lt.risotto-allo-zafferano-120828120914

Per preparare il risotto allo zafferano cominciate tritando finemente la cipolla, dopodichè fate sciogliere, a fuoco lento, 80 gr di burro, facendo attenzione che non frigga, quindi aggiungete la cipolla tritata finemente e fatela imbiondire mescolando continuamente con un cucchiaio di legno.
Unite il riso e fatelo tostare facendogli assorbire bene il burro, dopodichè alzate il fuoco e bagnate il riso prima con il vino, che lascerete evaporare, e poi con 2 mestoli di brodo bollente; mescolate sempre e, quando questo sarà quasi assorbito, aggiungetene altri 2 mestoli. Questa operazione dovrà essere ripetuta fino alla completa cottura .
Negli ultimi 5 minuti di cottura, sciogliete lo zafferano in poco brodo (10) e versatelo nel riso facendolo amalgamare bene.
Una volta che il riso ha raggiunto la cottura desiderata va tolto dal fuoco e mantecato con il grana grattugiato e con il resto del burro. A questo punto assaggiate il riso e aggiustatelo eventualmente di sale: consigliamo di effettuare questa operazione poco prima del termine della cottura, in quanto il riso viene bagnato con il brodo che è già salato di per se, quindi è meglio controllare il grado di sapidità al termine, per evitare brutte sorprese. Prima di servirlo, è meglio lasciare riposare il risotto allo zafferano per qualche istante, in modo che possa insaporirsi ulteriormente. Spargete i pistilli di zafferano sul risotto per decorare i piatti di portata.

Pagello in guazzetto allo Zafferano

2 pagelli da 500 g gia puliti
2,5 dl di prosecco
Un grappolo d’uva bianca
Zafferano in polvere, 1 gr.
90 g di scalogno
Una foglia d’alloro
Un bicchiere di brodo vegetale
Olio extravergine d’oliva
Sale e pepecucchiaio-piatto-pronto_dettaglio_ricette_slider_grande3

Disponete i pagelli su una teglia unta con 3 cucchiai di olio e sgranatevi intorno i chicchi d’uva.
Versate il prosecco e il brodo in una piccola casseruola e aggiungete gli scalogni a fettine, l’alloro e lo zafferano. Unite 2 cucchiai di olio, un pizzico di sale e una macinata di pepe e mescolate. Mettete il brodo aromatico su fiamma bassa, portatelo a bollore e lasciatelo restringere per 5 minuti.
Versate il court-bouillon ottenuto sui pesci e passate la teglia in forno preriscaldato a 180 °C. Proseguite la cottura per 25 minuti, irrorando spesso il pesce e l’uva con il sugo. Servite ben caldo.

Ravioli di magro con panna e zafferano

200 g Panna Liquida
500 g Pasta Ripiena
Pepe
Sale
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Scaldate su fuoco basso 200 g di panna fresca. Aggiungete un grammo di Zafferano e fatelo sciogliere mescolando con un cucchiaio di legno, mantenendo il fuoco bassissimo in modo che la panna non arrivi a ebollizione; salate e pepate.
Scolate bene i ravioli, trasferiteli poi sul piatto; conditeli con il sughetto e cospargeteli con altro pepe e, se vi piace, con qualche pistillo di zafferano.

Un gustoso saluto e un Buon Finesettimana
Francesco Giannetti

Fabio Picchi, i’ Babbo in cucina… a Firenze.

Come iniziare la mia Rubrica di “Sapere & Sapori” se non con lo chef che ha uno dei 20 ristoranti migliori del mondo?
Per chi non lo conosce, lui è Fabio Picchi, Il Cuoco. Nato a Firenzefabio picchi il 22 giugno 1954 e ivi cresciuto, a soli 25 anni apre il suo primo ristorante, Il Cibrèo, e la trattoria affianco, detta Il Cibreino, a due passi dal mercato di S. Ambrogio, in pieno centro a Firenze. Dieci anni dopo, apre di fronte al Cibrèo anche il Caffè del Cibrèo, un Bistrot molto carino aperto anche a pranzo.
Innamoratissimo di sua moglie, l’attrice, autrice e regista Maria Cassi, nel 2003 decide di farle un regalo. Un regalo che però doveva fondere in sé le loro diverse e potenti passioni: la cucina e il teatro. Apre così il meraviglioso Teatro del Sale.
Correva l’anno 2005, per me l’anno della maturità. Un giorno decidemmo, insieme a qualche amico, di andare a mangiare fuori a pranzo dopo la scuola.
Uno di loro ci guidò al Teatro del Sale, di cui io non avevo mai sentito parlare.
Rimasi sconvolto (in senso positivo). Era qualcosa di… particolare. Ma bello!

C’era Fabio Picchi che urlava dalla finestra della cucina, diceva quello che stava per sfornare. Ci urlava consigli su come gustare i suoi piatti. Si arrabbiava se qualcuno mischiava le pietanze con sapori diversi. Sparava battute e si preoccupava che stessimo bene.
Quel giorno mi innamorai di quel posto. Semplice, diverso, amorevole, sereno. Gusti il buon cibo, quello vero. È… particolare. Ma stupendo!
Dato che, ad oggi, lavoro per la Rivista internazionale TopTime, qualche mese fa sono stato suo ospite al Cibrèo, dove il suo braccio destro (Francesco) e le direttrici del Ristorante, mi hanno fatto passare una delle migliori mangiate della mia vita.
Ho assaggiato molte delle sue pietanze e ho visto come le due direttrice accolgono i clienti. Ho capito tutto.
Vedete signori, la differenza tra uno chef e Fabio Picchi, tra un ristorante e il Cibrèo, tra il nutrirsi e il mangiare, non sta tanto nella bravura di cucinare.
La differenza tra questi è la più antica del mondo, quella che ci ha creato: l’Amore.

Mi dite quando vi è successo che un cameriere si sedesse accanto a voi, come un amico, per esporvi “quello che c’è” e descrivere dettagliatamente ogni pietanza? Al Cibrèo è la regola.
Mi dite quando vi è successo che, lo stesso cameriere che vi porta il piatto in tavola, vi consigliasse come gustarlo? Al Cibrèo è d’obbligo.
Mi dite quando un cuoco ha mai studiato, progettato e cucinato qualcosa, non solo che realizzi il palato, ma che facesse bene anche all’organismo? Per Fabio è l’unica ragione di vita.
Il mangiare bene non vuol dire mangiare tanto o mangiare pesante. Un piatto, anche il più semplice, è buono quando è fatto con il cuore. Con il cuore di un babbo.
Fabio ha imparato a cucinare a casa sua, in una cucina povera, semplice, saporita alla toscana e arricchita con l’amore della mamma.
Nel suo libro “Ho fame di te e di paradiso”, scrive il suo “Elogio della cucina bassa”:

Nel mio quotidiano elogio della Cucina bassa, letto ciò che scriveva Proust nel suo elogio della musica popolare, non ho alcun dubbio che tutti noi riponiamo lì, come nella musica, la certezza delle nostre emozioni più fragili e intime. Così, assodato che un Lucio Battisti, un Lucio Dalla o un John Lennon, come un Mozart, circoscrivono con la loro arte ciò che di più prezioso si possa mai “avere”, trasformandoci in persone capaci di “essere” migliori di quel che saremmo senza di loro, è dunque, per esempio nella memoria di un bollito avanzato, o nelle centinaia di piatti di donne, madri, cuoche o di chiunque esprima il desiderio di dare cibo, cosciente della propria responsabilità amorosa, che io percepisco il riaffiorare di memorie indelebili formative.
Ed è lì che oggi vado a ricercare ciò che di più grezzo e intimo ho nel mio cuore, nel mio amare, sopra ogni cosa lo stare insieme ad altri intorno a un tavolo, condividendo in prima istanza l’altrui bagaglio e il mio.
Cucinate come sapete fare senza nessun timore, senza nessuna ansia. Vi ritroverete così a soffriggere anche per amore. Fonderete così memorie pronte a esplodere nel futuro, inseminando ciò che sarà. Cucinate e soffriggete per chi vi pare, senza alcuna distinzione. Di amore si sta parlando.
Io soffriggo, cucino e amo per chi mi pare, nel mio caso una moglie, dei figli, degli amici, qualche parente e tutto il resto del mondo, con albe e tramonti, più tutte le sue differenze.

Quando andate a mangiare al Cibrèo o al Teatro del Sale o al Cibreino, non vi sentirete in un ristorante qualunque. Ognuno di essi ha una vetrata che separa la cucina dalla sala. Non è casuale.
Quando andrete a mangiare dal Picchi, vi sentirete graditi ospiti di un babbo che vi tratterà come i migliori amici del suo adorato figlio. E per amore di babbo, vi tratterà come se foste i suoi figli. Sarà dolce, ma anche severo. Sarà accogliente, ma anche duro. Accettatelo. Lo fa per amore. Perché lui sa che quel che vi dà fa bene al palato, all’organismo e soprattutto al cuore e alla mente.

“Sapere & Sapori” di Francesco Giannetti

Dalla passione che ho per la buona cucina, per l’arte culinaria e per Francesco Giannettiil benessere, voglio aprire oggi il Blog “Sapere e Sapori”. Sarà dedicato a tutto ciò che riguarda la cucina: il buon cibo, i migliori ristoranti che ho visitato, il rapporto tra cibo e psiche, tra benessere fisico e psicologico, il gusto del palato, senza tralasciare ricette tradizionali, piatti più moderni, pietanze di ieri e di oggi e la loro storia.

Sarà un Blog tutto da leggere e da scrutare, incentrato sulla mia filosofia: “Mangiare, non nutrirsi”.
Un buon piatto non è tale se non fa anche bene al proprio organismo. Un cibo può essere anche semplice, ma deve essere gustoso, altrimenti è un nutrimento.
Una volta a settimana, tutti i Sabato mattina, collegatevi a sapereesaporiblog.wordpress.com e troverete qualche piccolo grande segreto per passare il vostro meritato weekend nel migliore dei gusti.

Un cordiale saluto
Francesco Giannetti